Trekking a Pantelleria

Trekking a Pantelleria

La più grande delle isole siciliane, nonché la quarta in Italia per estensione territoriale (preceduta appunto da Sicilia, Sardegna ed Elba) è un paradiso per gli amanti del trekking. L’isola infatti vanta 21 itinerari escursionistici, tutti mappati e manutenuti dall’ente parco di Pantelleria per offrire la migliore esperienza possibile agli escursionisti che decidono di visitarla. Altro aspetto interessante è che dei suddetti sentieri nessuno presenta grosse difficoltà. Ovviamente occorrono un minimo di dimestichezza e preparazione fisica e, va da sé, il rispetto di tutti gli accorgimenti in uso – dall’abbigliamento, alla tutela dell’ambiente – di chi va per sentieri. Tuttavia, al netto di queste cautele, la rete sentieristica di Pantelleria è adatta a tutti. Da fare!

I dammusi di Pantelleria

I dammusi di Pantelleria

Abbiamo già incontrato i dammusi parlando di Lampedusa. E, proprio come a Lampedusa, anzi più di Lampedusa, i dammusi panteschi testimoniano la straordinaria capacità di adattamento degli isolani, storicamente abituati a fare di necessità virtù servendosi innanzitutto delle risorse reperibili in loco. Alla base dei dammusi, per esempio, c’è la grande disponibilità di materiale litoide: rocce ignimbritiche e tufacee che già in epoca preistorica, al tempo dei Sesioti, venivano largamente impiegate per la realizzazione dei sesi, i monumenti funebri di cui abbiamo già detto in precedenza. Le pietre utilizzate per queste abitazioni rurali venivano prese perlopiù dal terreno coltivato, ottenendo così un duplice obiettivo: insieme al ricovero per famiglia e animali, l’altrettanto decisiva pulizia della terra da cui ricavare i frutti. Oggi, va da sé, queste dimore dalla forma quadrangolare, coi loro caratteristici tetti a cupola, sono state trasformate in moltissimi casi in case-vacanze. Una deriva inevitabile, che tuttavia non riguarda tutti i 7000 dammusi censiti sull’isola. Perciò, possiamo dire che la valorizzazione turistica del territorio non ha scalfito il valore testimoniale di luoghi e modi di vivere che ancora raccontano il presente di Pantelleria. Da vedere!

La Vite ad Alberello di Pantelleria

La Vite ad Alberello di Pantelleria

In apertura abbiamo accennato al primato agricolo di Pantelleria. Il dato non deve stupire. Pur trattandosi di un’isola, infatti, il suolo vulcanico è sempre stato generoso di frutti, circostanza che storicamente ha indotto i panteschi a preferire la terra alle insidie dell’andar per mare. Non che l’agricoltura sia mai stata facile in un’isola esposta ai venti e con poca acqua a disposizione; e anzi proprio la ventosità, l’assenza di sorgenti d’acqua e la siccità nei secoli hanno costretto gli abitanti di Pantelleria ad aguzzare l’ingegno. Dalla costruzione dei muretti a secco per arginare le folate di vento – emblematici i giardini panteschi coi muretti a secco a protezione degli agrumi – ai dammusi, di cui parleremo più avanti, fino alla vite ad alberello, le testimonianze della straordinaria capacità di adattamento all’ambiente degli abitanti di Pantelleria sono molteplici. Proprio la coltura della vite ad alberello da cui, ricordiamo, si ricava un pregiato passito, dal 2014 è sotto tutela UNESCO. La vite viene infatti coltivata in conche di circa 20 centimetri, proprio per favorire l’accumulo di acqua piovana e la protezione dei grappoli dal vento. Va da sè, alla base del prestigioso riconoscimento non c’è solo quest’aspetto: è tutta la filiera, dalla potatura alla raccolta, a raccontare l’isola e gli isolani ben al di là della produzione vitivinicola in sé. Alla pratica agricola della Vite ad Alberello è dedicato uno specifico itinerario turistico-culturale, motivo in più per visitare Pantelleria. Da fare!

Villaggio di Mursia

Villaggio di Mursia

Pantelleria reca numerose tracce archeologiche di grande interesse, circostanza che aumenta notevolmente il fascino dell’isola, tanto più considerandone la collocazione geografica sui generis. Il Villaggio di Mursia, insieme ai resti dell’antica Cossyra sulle colline di San Marco e Santa Teresa, rappresentano senza dubbio i siti archeologici più importanti. Soprattutto il primo, ubicato nel versante occidentale dell’isola e addirittura risalente all’Età del bronzo (XVII sec. a.C – XV sec. a.C.). Si tratta di un centro abitato fortificato, punto nodale di interscambio nel commercio dell’ossidiana, equivalente dell’oro in età preistorica. Il muraglione a protezione dell’abitato è lungo circa duecento metri, alto otto e guarda la vicina Necropoli dei Sesi, questi ultimi originali monumenti funebri in pietra e a pianta circolare (vd. foto). Il Villaggio di Mursia si trova, tra l’altro, all’interno del Parco Nazionale di Pantelleria, la cui istituzione, nel 2016, sta contribuendo in maniera determinante alla preservazione della bellezza dell’isola, compreso il patrimonio agricolo su cui ci si soffermeremo più dettagliatamente nel prosieguo dell’articolo.

Grotta di Benikulà

Grotta di Benikulà

I fanghi allo Specchio di Venere; il bagno all’Arco dell’Elefante; la sauna a Benikulà. Battute a parte, i risvolti della natura vulcanica di Pantelleria non sono solo paesaggistici ma anche termali. Un destino comune ad altre isole italiane come, per esempio, Ischia in Campania. E restando sul parallelismo con la più grande delle isole flegree, anche Pantelleria ha il suo monte simbolo: a Ischia si chiama Epomeo; qui Montagna Grande, è alto 856 metri ed è proprio su un suo fianco che si apre la Grotta di Benikulà. Una faglia rocciosa da cui fuoriescono vapori acquei a 38°C utilizzata dai residenti prima e dai turisti poi come sauna naturale per la cura dei dolori reumatici. Da provare!

Arco dell’Elefante

Arco dell'Elefante

I prodigi del vulcanesimo, si sa, sono molteplici. Da un lago si passa a un arco naturale presto assurto, per la sua forma di proboscide, a simbolo di Pantelleria. Questa scultura in pietra (roccia ignimbritica) si trova lungo il versante nord-orientale dell’isola ed è raggiungibile sia da mare, basta scegliere uno tra i diversi tour costieri proposti durante la stagione turistica; che da terra, prendendo lo svincolo per Cala Levante. Come il Lago Specchio di Venere, anche la fama dell’Arco dell’Elefante ormai è internazionale tanto più che qui, tempo permettendo, è pure possibile fare il bagno in un mare assolutamente cristallino. Da non perdere!

Lago Specchio di Venere

Lago Specchio di Venere

Il nostro racconto di Pantelleria parte più o meno dal centro dell’isola, per la precisione da contrada Bugeber. Qui si trova il Bagno dell’Acqua, più conosciuto come Specchio di Venere. Si tratta di un lago vulcanico senza sbocchi a mare (tecnicamente endorèico: “endo” = dentro; “rèo” dal greco ῥέω = scorrere) e rappresenta di fatto l’unico bacino idrologico del territorio. L’immissione d’acqua avviene da alcune sorgenti situate lungo la sponda meridionale del lago che, perfino superfluo a dirsi, ha un elevatissimo valore ambientale: oltre ai fenomeni di vulcanesimo secondario, alcuni dei quali, come i fanghi, con buone ricadute turistiche, quello che più affascina di Specchio di Venere è la sua ricchezza floro-faunistica. Il fatto di trovarsi vicino le coste nord-africane rende questa località zona di transito per molti uccelli migratori che nel lago di Pantelleria trovano riposo e cibo, quest’ultimo rappresentato dai tanti organismi che vivono nelle sue acque. Da vedere!

I dintorni di Ferrara

I dintorni di Ferrara

Non solo Comacchio. Tutta la provincia di Ferrara meriterebbe un tour approfondito ben oltre il classico weekend che da consuetudine si destina alla visita delle città d’arte di medie-piccole dimensioni. Ciò detto, qui segnaliamo il versante occidentale della provincia, direzione Bologna: da Bandeno, famosa per i suoi canali; fino a Cento, città natale del Guercino, la cui archittettura richiama, quasi ad anticiparla, quella del capoluogo di regione. In questi territori c’è molto da fare e vedere, compreso indugiare nei diversi ristoranti della zona. Provare per credere!

Comacchio

Comacchio

Comacchio è un’altra tappa imperdibile di una vacanza a Ferrara. I chilometri che dividono le due località sono circa 50 ma, come detto, dedicare parte del proprio soggiorno ferrarese alla scoperta della “piccola Venezia” – uno degli appellativi con cui è conosciuta Comacchio – non è affatto una cattiva idea. L’altro appellativo è quello di “capitale del Delta del Po” e chiarisce l’importanza di questa città lagunare all’interno di un habitat, quello del Parco del Delta del Po, sotto tutela UNESCO dal 1999. Diverse le cose da vedere: dal Trepponti, monumentale ponte simbolo di Comacchio, al Loggiato dei Cappuccini, senza ovviamente dimenticare la ricca offerta balneare di Comacchio, rinomata stazione turistica capace di abbinare qualità dei servizi, come nella migliore tradizione emiliano-romagnola, a un mare impeccabile, ripetutamente premiato con la Bandiera Blu. Da vedere!

Monastero di Sant’Antonio in Polesine

Monastero di Sant'Antonio in Polesine

Fondato attorno all’anno Mille dagli agostiniani, questo monastero passò alle monache benedettine nel 1257. A volere così, l’allora signore di Ferrara Azzo VII d’Este, deciso ad assecondare la vocazione della figlia Beatrice. Dunque una tradizione claustrale che va avanti dal XIII secolo e che a distanza di centinaia di anni ha mantenuto intatta l’aura di sacralità propria di un luogo di raccoglimento e preghiera. Per dire, al mattino presto è possibile sentire la messa con le melodie gregoriane cantate dalle monache. Da vedere, inoltre, il chiostro, con la cappella contenente i resti della beata Beatrice, deceduta pochi anni dopo (1262) l’acquisizione paterna; il coro delle monache, dove a spiccare è la cinquecentesca pala d’altare (La Flagellazione) del pittore ferrarese Niccolò Roselli; e infine la chiesa riservata alle monache, soprattutto gli affreschi di scuola giottesca che decorano le tre cappelle. Maggiori info: Monastero di Sant’Antonio in Polesine.

Ghetto ebraico di Ferrara

Ghetto ebraico di Ferrara

Nel marzo 1492 i Re Cattolici Isabella I di Castiglia e Ferdinando II di Aragona decretarono l’espulsione degli ebrei dai loro territori. Dalla Penisola Iberica migliaia di ebrei furono costretti a riparare in Nord Africa, Medio Oriente e, in parte, anche in Italia. A Ferrara, in particolare, grazie alla politica di accoglienza della famiglia d’Este, gli ebrei poterono insediarsi e vivere in una comunità rispettosa delle altrui tradizioni culturali e religiose. Le cose cambiarono col passaggio della città allo Stato Pontificio, circostanza che portò nel 1627 all’istituzione del ghetto in cui gli ebrei ferraresi vissero fino all’Unità d’Italia. La stagione dei pari diritti, inaugurata con l’unità nazionale, conobbe un brusco arresto con l’istituzione delle leggi razziali nel 1938. A subire le conseguenze della persecuzione nazifascista anche quegli ebrei, come ad esempio lo storico podestà di Ferrara Renzo Ravenna, che avevano sposato la causa del regime mussoliniano fin dall’inizio. Per rivivere questa lunga e tormentata storia bisogna percorrere a piedi Via Mazzini, la strada principale del quartiere ebraico di Ferrara o, meglio ancora, visitare (se aperta) la Sinagoga al civico 95 e il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah (MEIS) in via Piangipane, 81. Da vedere!

Corso Ercole d’Este

Corso Ercole d'Este

In apertura abbiamo accennato all’importanza per Ferrara del passaggio tra l’urbanistica medievale a quella rinascimentale. Un vero e proprio cambio di scena che è possibile cogliere appieno visitando in successione Via delle Volte e Corso Ercole I d’Este. La prima, abbiamo visto, per l’impronta medievale; Corso d’Ercole I d’Este, invece, perché è l’arteria principale della già citata “Addizione Erculea“: una strada interamente pedonale e quasi sgombera di attività commerciali, in cui quel dialogo stretto tra strade, palazzi e paesaggio di cui abbiamo detto all’inizio raggiunge il suo apogeo. Non a caso, secondo l’Unesco è una delle vie più belle del mondo. Certamente, da un punto di vista storico, il merito va alla famiglia d’Este, ma bisogna riconoscere che questa strada è rimasta bellissima anche dopo che gli Este, nel 1598, lasciarono Ferrara. Tra l’altro, ed è un particolare altamente simbolico, l’abbandono di Ferrara, successivo al passaggio della città allo Stato Pontificio, avvenne attraversando quella Porta degli Angeli che idealmente conclude la strada e di cui gli stessi d’Este, un secolo prima della loro uscita di scena, avevano voluto la costruzione.

Via delle Volte

Via delle Volte

Ferrara, abbiamo detto, è la culla del Rinascimento italiano. La città, però, reca anche molte tracce della sua impronta altomedievale. Tra queste, degna di particolare menzione è Via delle Volte, strada di circa 2 chilometri che attraversa tutta la parte antica di Ferrara. Un tempo questa strada aveva una spiccata vocazione commerciale: proprio a fianco, infatti, scorreva l’antico corso del Po, (poi deviato con l’”Addizione Erculea”) lungo il quale transitavano le merci cittadine sia in entrata che in uscita. I passaggi ad arco sopraelevati – le volte, appunto – consentivano di raggiungere velocemente i magazzini sul lungofiume, esonerando i commercianti dal dover percorrere l’intera strada magari col rischio di incappare in qualche malintenzionato. Oggi di questi magazzini non v’è quasi più traccia e quelli invece rimasti sono stati trasformati in case e ristoranti. Insomma, Via delle Volte racconta la Ferrara che fu, una città in cui a fianco le virtù della laboriosità, dell’ingegno e dell’attitudine al commercio di alcuni abitanti convivevano le passioni “tristi” di altri: dal furto, alla prostituzione fino all’omicidio. In Via delle Volte, specie sul far della sera, quest’atmosfera rivive come suggestione, ed è proprio quest’evocatività a spiegarne il successo turistico. Da vedere!

Palazzo Schifanoia

Palazzo Schifanoia

Ventuno sale; oltre mille metri di percorso e circa 250 opere, più diverse installazioni multimediali a integrazione dell’esperienza museale. Questi, in estrema sintesi, i numeri di Palazzo Schifanoia, sede del Museo di Arte Antica di Ferrara. A volerne l’edificazione, sul finire del XIV secolo, Alberto V d’Este con l’intento di farne una dimora di svago e riposo, concettualmente lontana dai palazzi del potere del Ducato. Da qui il nome di “Schifanoia” che sta per “schivar la noia”, a testimonianza dell’attenzione storicamente riservata dalla famiglia d’Este al mondo dell’arte e della cultura. Attenzione complementare, non antitetica, alla cura degli affari politici e militari; attenzione che spiega anche la lunga influenza in ambito europeo di questa nobile famiglia. Tornando al Palazzo Schifanoia, l’ambiente più famoso, quello che da solo vale la visita, è il Salone dei Mesi voluto nel 1469 dal marchese Borso d’Este. Il nome chiarisce il programma iconografico della sala, i cui dipinti ripercorrono i dodici mesi dell’anno intervallati, però, da scene di vita cortigiana e cittadina. Menzione particolare anche per la Sala delle Virtù, la Sala delle Imprese e, ovviamente, per le raccolte (dalla numismatica, alla ceramica) ospitate. Per maggiori info: Museo Schifanoia.

Palazzo dei Diamanti

Palazzo dei Diamanti

Tra il 1482 e il 1484, Ferrara, sotto la guida di Ercole I d’Este, fu impegnata in un conflitto con la Repubblica di Venezia passato alla storia come “guerra del sale“, dacché all’origine dello scontro c’era appunto l’intraprendenza economica legata al commercio del sale da parte del Ducato di Ferrara. Dopo i fatti, che in verità coinvolsero diversi altri attori, Ercole I volle il raddoppio della città all’interno delle mura: una scelta, dunque, eminentemente difensiva a cui si accompagnò, però, una diversa visione dello spazio urbano. Visione mutuata dalla giovanile frequentazione della corte di Napoli, al cospetto della quale Ercole I aveva avuto modo di approfondire i precetti dell’architettura classica. Il mandato di ridisegnare Ferrara venne affidato da Sigismondo d’Este (fratello di Ercole I) all’architetto Biagio Rossetti che, già sul finire del ‘400, cominciò a lavorare a quella che sarebbe poi passata ai posteri come “Addizione Erculea“. Centrale nel progetto la costruzione di Palazzo dei Diamanti, così chiamato per gli 8.500 blocchi piramidali di marmo bianco che decorano la facciata. Va da sé l’edificio nel corso dei secoli ha avuto diverse modifiche e altrettanti cambi di proprietà. L’acquisizione al patrimonio comunale risale al 1842 proprio con l’intento di sistemarvi la pinacoteca, sebbene la piena valorizzazione artistico-culturale e poi turistica di Palazzo dei Diamanti sia successiva alla Seconda Guerra Mondiale. Oltre alla Pinacoteca, l’edificio ospita le esposizioni della Fondazione Ferrara Arte. Parliamo di mostre dal respiro internazionale, figlie della collaborazione negli anni con musei importanti come il Metropolitan di New York e il Thyssen-Bornemisza di Madrid. Da vedere!
Maggiori info: www.palazzodiamanti.it.